Quali sono le cause della diminuzione degli stipendi in Italia, gli elementi che determinano la situazione
Un dato emerge immediatamente osservando il trend degli stipendi in Italia negli ultimi 30 anni: rispetto agli aumenti continui del costo della vita, corrisponde una crescita lenta di salari e stipendi che si traduce in perdita del potere d’acquisto, soprattutto nella fascia più bassa di retribuzione.
Esemplare quanto avvenuto di recente: l’impennata dell’inflazione di questi ultimi due anni connessa alla guerra in Ucraina non è stata accompagnata da una adeguata crescita dei salari, di conseguenza il potere d’acquisto dei salari è calato in Italia più che altrove in Europa. Ma questo dato non si limita alla fase post pandemia segnata dal conflitto europeo, è una tendenza in atto da decenni. Di fatto gli stipendi degli italiani sono calati in 30 anni del 2,9 per cento.
L’andamento degli stipendi in Italia
L’inflazione degli ultimi 24 mesi è solo uno degli elementi che determinano questa condizione di impoverimento reale dei lavoratori. La scia è inizia già dalla seconda metà degli anni Novanta, con rivalutazioni sempre più leggere e un mercato del lavoro che punta su paghe leggere e precarietà scambiata per flessibilità per aumentare la produttività.
Al contempo mancano investimenti su innovazione e formazione del personale con difficoltà nel settore pubblico quanto in quello privato. Lo sviluppo tecnologico nell’amministrazione e nel terziario si scontra con problemi strutturali del Paese come la carenza delle infrastrutture digitalizzate, con una rete a banda ancora limitata, o come il peso del surplus normativo e burocratico.
Gli interessi di lobbies e categorie ristrette bloccano innovazioni e cambiamenti con privilegi per pochi e servizi di qualità scadente, basta pensare alle difficoltà di affrontare la questione delle concessioni balneari e a quella delle licenze dei taxi. Un quadro desolante nel quale anche discutere di aumenti di salari o di salario minimo viene rinviato o rifiutato, ben sapendo che in molti settori i contratti nazionali prevedono retribuzioni così scarse da essere ben al di sotto della proposta dei 9 euro all’ora.
Si preferisce mantenere una pletora di contratti che rendono il lavoro non garantito, precario e scarsamente retribuito, con scarsa formazione e aggiornamento. Ma anche laddove i contratti nazionali di lavoro hanno garanzie maggiori i rinnovi sono lenti, con adeguamenti insoddisfacenti rispetto l’incremento del costo della vita. Si parla di inflazione da salari, quando sono gli stessi organi centrali dell’amministrazione dell’Unione europea a parlare di extraprofitti delle imprese.
La redistribuzione del reddito non può essere un tabù nell’agenda politica. Con profitti in crescita come registrato anche dall’Ocse, c’è spazio per assorbire gli aumenti salariali, in particolare per la fasce di retribuzione più bassa, con una redistribuzione dell’inflazione più equa tra lavoratori e imprese.
In Italia quello che manca sono gli investimenti nella formazione, nell’istruzione e nella ricerca con poca attenzione per i settori legati alle fonti dell’energia rinnovabile, alla tutela del territorio e allo sviluppo digitale.