Ecco per quale motivo sarà sempre più difficile raggiungere i requisiti necessari al riconoscimento della prestazione prima di questa età. I motivi
Viene così troppo automatico parlare di pensione, prima ancora che di lavoro. Sarà che la popolazione demografica è costituita per la maggior parte da persone anziane e che la drastica diminuzione delle nascite sia un fenomeno con preoccupanti tratti di irreversibilità. Di fatto, nonostante il trattamento pensionistico sia un obiettivo di vita primario per declinare la propria esistenza sotto i termini della dignità anche quando l’INPS avrà preso il posto del datore di lavoro, proprio il lavoro è la materia prima che alimenta l’ultima fonte di entrate.
Sebbene il lavoro rappresenti la prima prerogativa costituzionale, garantita da una rosa di diritti che nel corso dei decenni sono andati cambiando, oggigiorno, quello che è un principio sacrosanto del cittadino si declina nel diffuso appellativo di “mercato del lavoro”. E in tale mercato, ogni anno, si va a barattare, in qualità di attempato lavoratore, i limiti riconosciuti per potersi candidare alla domanda di riconoscimento del trattamento INPS.
Come è noto, il principale punto di riferimento del trattamento previdenziale è quello prodotto dalla controversa Legge Fornero: la pensione di vecchiaia. Come si sa, tale trattamento si acquisisce all’età di 67 anni e una volta versati almeno 20 anni di contributi. Certo, l’amara constatazione di fondo risulta essere è rappresentata dal fatto che sempre di più il lavoratore svolge una carriera sempre meno lineare, alternando – ad esempio – anni di lavoro e disoccupazione.
In effetti, tale condotta non è affatto sufficiente, sebbene possa apparire più gratificante di contesti professionali decisamente peggiori. In concreto, ben pochi si congedano a 67 anni, avendo i contributi in regola. Ecco dunque che si prolunga la propria carriera, e quindi la propria esistenza tra le mansioni che danno da vivere. Allo stesso tempo, tutti i lavoratori a cui è stata ritardata l’uscita, ritardano l’entrata delle nuove – sempre meno esigue – e giovani leve di lavoratori.
Per compensare un necessario (e minimo) ricambio generazionale, i governi formano oramai a cadenza annuale, forme di pensionamento anticipato come l’attuale Quota 103, somma del raggiungimento di 62 anni anagrafici e 41 anni di contribuzione versata. Senza dimenticare misure collaterali come l’Opzione Donna, il cui anticipo è però condizionato dal numero dei figli delle lavoratrici.
Tuttavia, pue esistendo un leggero anticipo nel congedo nei confronti delle donne, le uscite dall’ambiente di lavoro tardano progressivamente. A premonire la perdita di senso del criterio demografico, ci pensa il fatto che dal 2024, si passa alla Quota 41, con i soli anni di contributi necessari. Oggi come oggi, la pensione si ottiene mediamente a 71 anni di età; in definitiva sono coinvolti essenzialmente i lavoratori che hanno iniziato le loro attività non prima del 31 dicembre 1995.
Inoltre, si lavora di più anche scongiurare un rateo mensile pensionistico al di sotto delle esigenze minime, oltre ad integrare il surplus autofinanziando un trattamento previdenziale integrativo. Pertanto, soltanto 5 anni in più di lavoro, fanno slittare l’appuntamento col congedo almeno a 71 anni. Questo, soltanto per ottenere una pensione pari o superiore ad 1,5 volte l’assegno sociale: ciò significa che con un riferimento di un assegno sociale attualmente di 504 euro, l’importo a 71 anni sarà di circa 754 euro al mese.