I percettori dell’indennità di disoccupazione erogata dall’INPS sono esclusi dalla platea a cui viene riconosciuto questo importante strumento di sostegno
Come è noto, la dimensione del lavoro è talmente importante nella tradizione giuridica italiana che ha trovato posto come prima prerogativa nella Carta costituzionale. Tuttavia, appare, nelle cronache quotidiane della carta stampata e no, come una realtà sofferta, drammatica, dove esplodono tutte le contraddizioni dell’organizzazione di una società. Perché il diritto e l’accesso al lavoro è una questione di uguaglianza di possibilità, al pari del diritto ad una retribuzione dignitosa e alle pari potenzialità di acquisire delle competenze.
Pertanto, troppo spesso si abbassano i riflettori che illuminano le percentuali che descrivono lo stato di disoccupazione, specie della disoccupazione giovanile che indubbiamente trasmette sentimenti più intensi nella prospettiva di inserimento delle nuove generazioni. Al contempo, le misure di carattere previdenziali riflettono una maggiore attenzione sul lato delle pensioni, in parte dovuta alle preoccupazioni trasmette dal quadro demografico nazionale; eppure, nonostante ciò, nonostante calino le nascite, le nuove generazioni di lavoratori siano sempre più circoscritte, l’accesso non si concilia con l’uscita dei soggetti in procinto della pensione.
Periodicamente il lavoro dipendente può affidarsi agli accordi sindacali che cercano di adeguare le retribuzioni all’attuale costo della vita; quelli che vengono comunemente conosciuti come i rinnovi dei contratti nazionali di categoria. L’aumento dell’inflazione impone certamente retribuzioni adeguatamente più alte, in grado di affrontare i costi e le spese di sussistenza e mantenimento della persona e di una famiglia. In concreto, per giungere a questo scopo occorre “banalmente” aumentare gli stipendi secondo una logica di detassazione.
È la logica che si addice comunemente alle buste paga: detassazione, defiscalizzazione delle trattenute. Oltre a maglie di detrazioni a corredo di una famiglia a carico. Pertanto, più che immettere cash nei cedolini, si tagliano alcune trattenute: a tal proposito va il taglio del cuneo fiscale contributivo voluto dal premier Giorgia Meloni. Si tratta di una “doppia forbice”: un taglio del 7% ai redditi lordi annui fino a 25mila euro; del 6%, oltre i 25mila e fino ad un massimo di 35mila euro. Questi tagli non inficeranno sul novero dei contributi utili alla pensione.
Come sopra accennato, il lavoro è una dimensione impattante anche e soprattutto quando non c’è. Le ultime esperienze, dall’emergenza sanitaria da Covid-19 e l’aumento delle bollette per la crisi energetica, hanno costituito la fonte che ha alimentato processi di migrazione alla cassa integrazione di centinaia di lavoratori, se non di licenziamento e conseguente disoccupazione. Per i primi 6 mesi, i lavoratori dipendenti possono contare sull’indennità di disoccupazione fornita provvisoriamente dall’INPS, ossia la cosiddetta Naspi. È richiedibile sin dall’ottavo giorno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Se si pensa che in virtù dello status di disoccupazione si possano ottenere diversi bonus, si va in errore. Non tutti gli aiuti sono scontati. Ad esempio, l’ultima arrivata Carta Risparmio Spesa varata dal governo; essa rappresenta l’una tantum di 382,50 euro erogata dall’INPS, per sostenere la spesa alimentare. L’INPS assegna il sostegno senza domanda ai contribuenti con un ISEE annuo fino a 15mila euro, a partire dal prossimo luglio. Eppure sono esclude dalla misura proprio le famiglie dove uno dei componenti percepisce la Naspi, la Dis-Coll, l’indennità di mobilità o i fondi di solidarietà per l’integrazione del reddito.