Ecco quanto pesa al lavoratore, in termini di versamento quella contribuzione utile per produrre lo sperato trattamento pensionistico INPS. I particolari
Sin dall’esordio della propria carriera professionale, è normale che un lavoratore inizi a farsi due conti per comprendere quale peso prenderà la sua lunga maratona esistenziale nello svolgimento delle sue mansioni. Ovviamente l’obiettivo numero uno è rappresentato dalla pensione, approdo per tutti i soggetti che dopo una lunga vita di sacrifici, sperato di trascorrere gli anni della terza età all’insegna del riposo e della tranquillità economica.
Le odierne modifiche che spesso stravolgono i sistemi pensionistici, sia per la vecchiaia che per l’anticipo del pensionamento, costringono periodicamente a rivedere i calcoli e, non senza poche delusioni, a ridimensionare il proprio sforzo (presente o futuro) per difetto. Tutto ciò dipende dai cambiamenti di una società che produce forze professionali discontinue, in una cornice di progressivo invecchiamento demografico.
A subire continue modifiche (quasi a ritmo annuale) sono proprio quelle misure transitorie di pensionamento anticipato, volte a consentire il congedo che non vogliono proseguire il percorso contributivo verso la pensione di vecchiaia, accontentandosi, nel frattempo, di un assegno sociale più basso prima di percepire la pensione vera e propria. In questo modo, si anticiparebbe anche l’entrata di quel lavoratore che col suo versamento di contributi, finanzia i ratei dei pensionati di oggi e dell’immediato domani.
Certo, però, lo Stato deve contingentare tali uscite prima del tempo, evitando il rischio di mandare in rosso le casse dell’INPS. Di fatto, con le attuali condizioni del mercato del lavoro, sarà complicato “produrre” pensionati con 20 anni di contributi alle spalle (come richiesto ai 67enni per la pensione di vecchiaia), tantomeno 41 anni, richiesti dall’odierna Quota 103. Anche perché la pensione può rappresentare l’approdo per chiudere un pessimo periodo della vita professionale.
Pessimo, sì, se la propria carriera viene bruscamente interrotta da una condizione come quella disoccupazione, dovuta al sopraggiungere del licenziamento. E non sono rari i casi quando questo si è verificato a pochi anni dal traguardo della pensione. Ciò significa che per gli anni di contributi da versare rimasti, occorre sborsare di tasca propria, non contando più sul versamento del datore di lavoro. Ma anche il versamento volontario dev’essere autorizzato dall’INPS. Nel dettaglio, l’ente previdenziale deve riscontrare che il lavoratore abbia versato almeno 5 anni di contributi durante lo svolgimento delle sue mansioni; al contempo che il versamento di almeno 3 anni contributivi sia avvenuto negli ultimi 5 anni prima di presentare la domanda. All’incirca, un lavoratore è chiamato a versare annualmente 3.900 euro. Se si pensa di avere davanti 14 anni di versamenti, la cifra da sborsare per l’INPS è pari a 55mila euro; con la Gestione Separata, il lavoratore autonomo pagherà ancora più salato il diritto alla pensione: 4.376 euro in un anno, e in 14 anni, oltre 61mila euro.