Ecco quali sono i rischi e le conseguenze per chi ha svolto mansioni in maniera irregolare e senza un regolare contratto di lavoro. I particolari
Nel corso degli ultimi decenni, in Italia si è aperto un dibattito per certi versi doloroso, almeno per una parte dei soggetti coinvolti. L’ambito della discussione teorica riguarda il lavoro, mentre il macrodettaglio pratico è quello del costo dei lavoratori. Naturalmente le riserve di una parte della referenza politica e socioeconomica vertono sul fatto che questo costo è alto e scoraggia, tutt’oggi, l’iniziativa imprenditoriale e gli investimenti sul territorio.
È una parte del mondo dirigenziale e di coloro che sono coinvolti nel mondo finanziario, industriale e della piccola-media impresa a sollecitare la realizzazione dell’annosa richiesta di detassare significativamente le buste paga; e talvolta, questo orizzonte investe negativamente anche l’adeguamento dello stipendio stesso del lavoratore, rischiando di intascare, ogni mese, minori entrate.
L’alleggerimento dei costi del lavoro è un tema caldo a cui gli ultimi governi succedutisi sono stati particolarmente sensibili, proprio in virtù del fatto di non incorrere nel rischio che gli investimenti abbandonino il Paese e taluni capitani di impresa delocalizzino le loro aziende, decidendo di trasferire gli impianti presso aree industriali più convenienti, negli Stati della periferia del mondo.
Correre questo rischio significa mettersi sulle spalle della previdenza sociale decine di migliaia di salariati, aventi diritto alla fruizione della cassa integrazione. Al contempo, lo Stato dovrebbe imporre inflessibilmente le norme sulla regolarizzazione del lavoro per non allargare le già logore maglie del lavoro sommerso, presenti in maggioranza in settori quali quello dell’edilizia, dell’agricoltura, del trasporto merci ecc.
La reale convenienza del lavoro “a nero”, al di là dell’illecito in atto, è effettivamente monerizzabile da parte del datore di lavoro, alle prese con un basso stipendio lordo da elargire al proprio “dipendente”; d’altro canto, la convenienza fittizia è scaricata sul lavoratore, con in mano un netto immediato e forse più alto dei suoi colleghi regolarizzati, ma senza alcun diritto previdenziale acquisito e regolarizzato, come ovviamente la pensione INPS, mediante il pagamenti dei contributi. Dunque, al raggiungimento dei 67 anni di età si rischia di non ottenere il trattamento INPS, né un assegno sociale. Per la pensione di vecchiaia ci vogliono almeno 20 anni di contributi, alternativamente raggiungibili a 71 anni (entro il sistema contributivo, però, cioè successivamente al 1995). Senza contributi ricevuti, il lavoratore, nel frattempo, potrebbe versare almeno 5 anni dei cosiddetti contributi volontari. Si potrebbe ottenere, su richiesta, l’assegno sociale, e bisogna versare in stato di bisogno, senza immobili di proprietà e senza un coniuge che abbia un reddito da lavoro o una sua pensione.